lunedì 29 aprile 2013

Assoluta cooperazione


“Enlightenment is: absolute cooperation with the inevitable.”





Assoluta cooperazione con l'inevitabile. Sembra una cosa troppo forte. E lo è. Ogni singola parola è un macigno.

Assoluta: senza riserve. Senza dire: "Ma io... ma lui... ma lei..."

Cooperazione: non è solo accettare, è cooperare e quindi cooperare anche se (soprattutto se) il fato sembra avverso.

Con l'inevitabile: tanto comunque quello che deve accadere accade comunque. Poiché: this is it! Questo è quello che c'è, prendere o lasciare. No, prendere o prendere. E basta. Lasciare (con il suicidio) è solo un prendere con la violenza, un dare un messaggio forte di non cooperazione. Ma inesistente, perché l'io che dà quel messaggio non esiste. E un messaggio da una fonte inesistente è esso stesso vuoto.


Assoluta cooperazione con l'inevitabile è un affidarsi ad una potenza più forte, perché tutti i nostri sforzi per risolvere la cosa si sono dimostrati fallimentari.

E' il terzo dei dodici passi del recupero degli alcolisti anonimi:


3) Abbiamo preso la decisione di affidare le nostre volontà e le nostre vite alla cura di Dio, come noi potemmo concepirLo.

Affidare la "nostra" volontà significa non riconoscerla più "nostra", perché la nostra volontà, volenti o no, ci ha portato a questo caos. A questa situazione di disperazione assoluta... il primo passo:

1) Abbiamo ammesso di essere impotenti di fronte all’alcol e che le nostre vite erano divenute incontrollabili.

Qui dice "di fronte all'alcool", ma potrebbe essere qualunque altra cosa: il gioco, il sesso, droghe, violenze, ecc... qualunque comportamento autodistruttivo.

Assoluta cooperazione: non più la "mia" ma la Tua volontà. Anche se all'inizio la medicina sarà amarissima.


domenica 28 aprile 2013

Pretendere da Dio

La solitudine dell'essere equivale ad una piena accettazione della situazione presente: e l'accettazione della situazione presente significa accettare la nostra responsabilità nella sua creazione.

Possiamo creare dolore, creiamo dolore inconsapevolmente, dolore per il quale altro dolore viene creato. Non esiste martire perfetto. Non esiste perdono umano assoluto e per guarire fondamentalmente c'è solo un piano, quello divino. E Dio non fa piani: fa solo miracoli.

Arrendersi al piano di Dio significa semplicemente dire: "Sono arrivato qui. Non ce la faccio più, ora tocca a te". Ma il toccare a Dio può solo essere invocato se si apre la porta al fatto che Dio non c'entra nulla con tutto il caos attorno a me.

Non chiedo l'intervento di Dio per sanare un errore di Dio. Sarebbe l'ultima pretesa dell'ego, il piano d'attacco mirabile in cui ci mettiamo al posto di Dio additandolo come responsabile della nostra malattia.

Ma la malattia era nel principio quella di potercela fare da soli, separati da lui. Unirsi all'Uno e guarire è la stessa cosa, perché l'Uno non può essere malato. La malattia è il pensarsi separati. Per alcune persone questo è abbastanza ragionevole, passano una vita tranquilli, senza apparenti scossoni, una bella casa, un buon lavoro, un buon partner, figli, famiglia, un po' di successo, ecc... si può vivere in modo separato abbastanza bene.

Ma per alcune persone questo non funziona; forse è paura, forse sono rancori che uno si porta dall'infanzia, magari (per chi ci crede) da altre vite, debiti karmici da pagare... insomma, si mettono in un guaio dopo l'altro. Causano dolore e sofferenza, costruiscono e distruggono.

Ad un certo punto non ce la fanno più e chiedono l'intervento divino. Non c'è nulla di male, è umano. Ma il problema è appunto in che modo si chiede. L'unico modo sensato di chiedere è quello di prendersi la responsabilità del nostro stato, chiedere scusa a tutti e poi stare fermi.

Aspettare il miracolo? Ma non è un pretendere? Anche questa, l'ultima pretesa. Togliersi quest'ultima speranza. Questo è. Anche senza miracolo. Anche senza Dio. Punto. Rimanere sul proprio essere. E lì centrarsi.


This is it!

this is it!, questo è quello che c'è, niente da aggiungere, niente da togliere. La realtà per un bambino è questa, non può scegliere i genitori, non può scegliere la lingua, la nazione, il contesto, non più di una pianta che nasce dove il seme si è posato.

This is it. Il bimbo sa perfettamente questo e non se ne cura, cerca sempre di cavarne il massimo in ogni circostanza perché sa che ogni circostanza è in realtà una sola, quella presente: this is it, appunto.

Questo inerente surrender in parte si può spiegare con la relativa debolezza di un bimbo: ma questa debolezza è anche la sua estrema forza: così come il cranio di un adulto sarebbe schiacciato se in proporzione subisse la stessa compressione del canale del parto, così la psiche di un adulto viene frantumata (può esserlo) per gli stessi traumi che un bimbo invece risolve o, comunque, ne viene a capo, sopravvive.

Ma cosa vuol dire guarire? Un bimbo che nasce in una famiglia abusante o maltrattante, che ha un padre violento o una madre anaffettiva guarisce? Sopravvive, certo, avrà dei sostituti, si inventerà delle favole, parlerà ad amici immaginari, svilupperà una sensibilità diversa... è guarire questo? O non sono invece delle tare che si porterà nell'età adulta, che lo condizioneranno nei suoi rapporti successivi?

D'altra parte un adulto in una stessa condizione si preoccupa, cerca di cambiare, sta male, cerca conforto in amici veri, o magari in amici immaginari (alcool, psicofarmaci o anche droghe), ha altre strategie di sopravvivenza.

Guarisce un adulto?

Forse la chiave è unire la forza dell'adulto con la capacità di sopportazione di un bambino. Entrambe sono necessarie. Un bimbo non guarisce ma sopravvive, un adulto potrebbe guarire ma prima di guarire deve accettare che quello che ha di fronte è. Non importa chi o cosa o quando, è. This is it.

sabato 27 aprile 2013

Il piano che funziona

Poche cose sono certe di un percorso di guarigione, una, dicevamo tempo fa, è sicura: la guarigione è solitaria. A questo proposito vorrei aggiungere un altro aspetto di questa solitudine.

Non è la solitudine "classica", quella di chi sta senza amici o compagni, no, la solitudine nella guarigione è la solitudine da se stessi perché è se stessi che si deve abbandonare.

"Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima?” (Matteo 16,vv. 25-26) 

Questo passo difficile significa a mio avviso proprio questo: la vita che si deve abbandonare è proprio l'ego, l'illusione di essere un corpo separato dagli altri corpi, in lotta per la sopravvivenza. La guarigione passa attraverso il rilascio dell'illusione, o, meglio, dal suo semplice riconoscimento, perché riconoscere un'illusione e non crederci avvengono nello stesso istante.

E c'è ancora un altro aspetto implicito nel suo discorso: solo il suo piano funziona. Tutti i piani costruiti ad hoc da parte dell'ego per conservare la vita falliranno. Non si può guarire attraverso il problema che ha causato la malattia.

venerdì 26 aprile 2013

Vedi cara

Riconoscere di essere arrabbiati è importante perché solo riconoscendo di esserlo si può lavorare sulla rabbia, altrimenti sembra di essere solo depressi, solo tristi, solo un po' giù mentre si è arrabbiati con tutto il mondo ed anche con se stessi.

La rabbia come sentimento è da studiare meglio, perché apparentemente è un sentimento primario, mentre il sentimento primario è solo uno, l'amore. Tutto il resto è "non-amore" con varie sfumature. Si dice che il contrario dell'amore è la paura, ed il lavoro, un primo lavoro di consapevolezza è nel riconoscere la paura dentro la rabbia.

Quando siamo arrabbiati c'è in fondo la paura che gli altri potrebbero aver ragione, c'è una resistenza ad ammettere la nostra responsabilità nello stato che ci sta causando la rabbia. Pensandoci bene, se il 100% di tutto quello che vedo è opera mia (diretta o indiretta, conscia o inconscia) non ha alcun senso arrabbiarmi con gli altri, visto che sono stato io a mettermi in ogni situazione. D'altra parte non ha senso neppure arrabbiarmi con me, perché non sono io (inteso come ego) ad aver deciso, ma, per il 95%, la parte di me inconscia.

Come diceva Guccini:

"Non rimpiango tutto quello che mi hai dato che son io che l'ho creato e potrei rifarlo ora"

La rabbia dunque è solo una copertura di questa nostra assoluta responsabilità; la paura di riconoscere che la nostra sofferenza è solo una nostra scelta. Ma da dove viene questa paura? Dal fatto che ci aspettiamo una punizione, mentre la punizione è la nostra stessa rabbia, la paura.


giovedì 25 aprile 2013

Cose che importano

Il processo di guarigione opera togliendo cose, non mettendocene. C'è in ballo la vita, la nostra vita eppure da un altro punto di vista la nostra vita non importa poi tanto: se siamo parte del tutto non ha molto senso guarire, o, meglio, sembra non importare molto. In un organismo una cellula può tranquillamente morire e non impatta tutto il resto.

Ma in realtà l'analogia potrebbe anche non essere questa: potrebbe essere quella di una cellula che invece muta, diventa maligna, allora sì che la nostra salvezza (o guarigione) importa. Ritorna la parabola del Buon Pastore che lascia il gregge scoperto per andare a prendere quell'unica pecora smarrita. Perché darsi tanta pena per una?

Perché il gregge non può funzionare senza tutte le pecore. Uscendo dalla metafora religiosa la nostra guarigione non è un fatto solo nostro. Certo, a guarire siamo noi ma ognuno è parte di una rete: figli, genitori, sorelle, fratelli, amici, colleghi. La nostra guarigione non è un fatto personale (non lo è più) se poi le persone attorno a noi stanno meglio.

Un tempo parlavo di egoismo della guarigione: adesso dovrei parlare di egoismo della malattia, ossia la persona che non guarisce in realtà vuole farla pagare al gregge attorno a lei, il suo stato di non guarigione è una richiesta d'aiuto fatta a mo' di pretesa: "Io sto male, quindi anche voi, che mi state vicino, dovete stare male nel vedere come io sto male".

mercoledì 24 aprile 2013

cosmic joke

Proprio così, uno scherzo cosmico. Così Adyashanti alla fine definisce la vita. Non mi stupisce molto: arrivati ad un certo punto di riflessione tutto appare talmente ridicolo che, appunto, vien voglia di ridere. L'ho notato nei tribunali, si vede in televisione magari una persona imputata di grossi crimini e che però è serena, quasi ilare. Questo aspetto può far venire rabbia, come per dire che una persona non ha rispetto per la giustizia... ma ora riesco a capire che ci può essere un'altra interpretazione.

L'interpretazione che questa persona, in realtà, ha capito che è tutto uno scherzo cosmico. Che non ha senso preoccuparsi di nulla, di premi e punizioni, di ciò che è stato dato o preso. Non solo non conta il passato, non solo non conta il futuro, su questo ci si può quasi arrivare, ma non conta neppure il presente, nel senso che è irrilevante per il nostro benessere la condizione attuale.

Circumstances don't matter, only state of being matters.

(Le circostanze non sono materiali, non creano, solo lo stato dell'essere, il nostro stato interiore ha la capacità di creare).

La guarigione resiste perché ciò che si pensava di ottenere non è quello che ci si aspettava: la bellezza del tutto è che, probabilmente, una volta arrivati a trovare lo scrigno della guarigione lo si apre e probabilmente salta fuori un pupazzetto a molla con scritto: "Te l'ho fatta!".


martedì 23 aprile 2013

piena responsabilità

Incomincio a credere che il succo di tutto questo "guarire" sia in realtà uno solo: riconoscere la inevitabilità di questa situazione che io giudico negativa date le premesse (familiari, di temperamento, comportamentali, economiche, ecc...).

In questo modo, almeno, si elimina un problema, che è quello del perdonarsi. Ma qui c'è il grosso ostacolo, vero, forse unico: il perdonarsi implica che, almeno su un certo piano di realtà (poi si può anche considerare che quel piano non sia reale, ma si va un passo alla volta) si sia fatto qualcosa di male. Se noi giudichiamo la situazione presente negativa il male da qualche parte è stato iniettato.

Questo è un compito se vogliamo facile, perché la nostra mente è abituata ad un tempo lineare, a relazioni causa effetto. Si può partire con una semplice domanda: qual è stato l'ultimo periodo felice? Supponiamo che la risposta sia vent'anni fa.

A quel punto si analizza cosa sia successo dopo quel periodo e la piena responsabilità suppone che in realtà gran parte (se non tutto) ciò che è successo dopo sia in realtà responsabilità nostra. La mente, di solito, a questo punto tenta di difendersi, dicendo che la sua azione era una reazione a qualcosa accaduto prima...

Ma se c'è stata una reazione allora quel periodo non era veramente felice, perché la mente coltivava ancora un certo desiderio di vendetta. E così si torna ancora indietro. Con questa catena in genere si può tornare indietro fino ai primi anni di vita, ed allora? A questo punto si hanno due scelte: o si tiene per vera questa catena di azione-reazione, oppure la si perdona, perché, date quelle premesse, il meglio che si poteva fare era quello.

Ma non è un passaggio lineare e manca la gestione della rabbia che questo comporta. Ci si deve ragionare meglio.

lunedì 22 aprile 2013

Profumo di guarigione

C'è un momento in cui sembra di essere arrivati al centro; sembra che il tunnel, sebbene lungo, abbia superato il picco. Ma come è possibile sapere se questa sensazione sia vera o un'illusione? Le ricadute sono immensamente più dolorose della causa primaria, proprio perché sono inaspettate.

Aspettare a cantare vittoria o essere ottimisti? C'è un segno vero che la strada percorsa porti effettivamente alla guarigione o no? Mi limito a dare dei segnali, ma per ciascuno potrebbero essere diversi, del resto anche con me non sono testati... Il segno forse più importante è la riscoperta di essere soli e di stare bene da soli. Questo perché la condizione umana, è quella di essere inesorabilmente soli: tolta la famiglia, gli amici, la società, ognuno è un'isola e nello stesso tempo parte del tutto, ma quest'isola è autosufficiente.

Molte volte la depressione nasce da una supposta mancanza: di affetto, di soldi, di figli, di successo nella vita, di salute, ecc... un chiaro segno di guarigione è cominciare a credere che non manchi nulla alla propria felicità, che non c'è nulla da ottenere per essere felici, ma è tutto qui, semplicemente perché si è. E questo essere è proprio ciò che è già perfetto, semplicemente perché è. Se non fosse perfetto... non esisterebbe.

Ma questa intuizione razionalmente non ha senso. La si comprende solo in un certo profumo, magari passeggiando sotto queste piogge di aprile e, per un attimo, solo un attimo, sentirla internamente.

domenica 21 aprile 2013

Illuminazione

La via verso la guarigione si può pensare come una spirale infinita, in realtà non ci si muove di molto, anzi, si va sempre di più verso un centro immobile con varie deviazioni.

Diciamolo chiaro, però, perché è da un po' di giorni che ci giro attorno, appunto: la via si può riassumere con la parola amore, ma questo "amore" di cui si parla ha poco a che fare con l'amore comunemente detto. Si può dire che  tutti i passi, tutti gli strati di illusione che esistono sono fraintendimenti della funzione per la quale noi siamo. E, in ultima analisi, fraintendimenti su quello che in realtà siamo. Perché essere e avere una ragione d'essere sono identici.

Ma questa facilità di esposizione non è altrettanto semplice da accettare.

Rimane il resto di quello che penso di essere io, il rifiuto a pensare che io sono solo una costruzione che mi sono fatto di bisogni, aspirazioni, idee. La percezione che questio io esista è talmente forte che negarla sembra un suicidio mentale.

E qui si arriva al paradosso dell'illuminazione: si guarisce perché si scopre che chi era malato non è esistente. Ciò che è malato non può esistere perché la Creazione è perfetta. La guarigione avviene dunque solo in un modo, così come è stata tramandata, spogliandosi di un abito che non è il nostro.



sabato 20 aprile 2013

Piccoli passi

Sebbene la guarigione sia istantanea, è anche vero che la nostra mente è vincolata ad una visione lineare, graduale. Ciò che quindi è indispensabile è trovare una minima base di partenza tramite la quale consolidare la nostra volontà di guarire.

"E' tutta una questione di testa!", si dice, be', certo. Ma in cosa consisterebbe il primo passo? E' possibile dare delle indicazioni generiche che non vanno bene solo per me, ma anche per altri? Fino a che punto dei suggerimenti sono validi? In un libro di self help ci sono dei passi estremamente chiari, quasi come una lista miracolosa di cose da fare per uscire dalla depressione o altri stati negativi. Ma qui è diverso; qui non si tratta di stare meglio, qui si tratta di guarire.

"Ero cieco e ora vedo"

Ancora il concetto di tempo che si scontra con il concetto di miracolo. Non è possibile guarire a piccoli passi!, questa è la dura realtà. Non c'è miglioramento possibile, nessun manuale, nessuna ricetta. C'è solo la volontà di rimanere ciechi oppure la volontà di vedere. Tutto qui. Ma allora, tutto il senso di un cammino fallisce. Non c'è alcun cammino. O no?

No, infatti. Il cammino esiste perché il togliere gli strati di illusione richiede tempo. E' come appunto avere tante bende intorno agli occhi, in cui ciascuna è opaca. Anche toglierle tutte tranne una non fa vedere; poi, alla fine, togliere l'ultima è la luce. La scelta è quella di toglierle tutte insieme o una alla volta.

Questa è la scelta personale, privata. Ciascuno si ammala a modo suo, ciascuno guarirà a modo suo.

venerdì 19 aprile 2013

Niente da ottenere

Non c'è nulla da ottenere, neppure la guarigione: essere guariti è una condizione solo dell'essere, permanente. Essere malati è invece la cosa impermanente, ciò che non è importante, viene e va. Considerarsi malati (e quindi bisognosi di guarire) è indice che non si è ancora capito che malati non si è, che tutto ciò che è capitato ha soltanto dato forma a sensazioni, esperienze dell'essere che sono andate, le lezioni imparate, tutto finito.

C'è molto da lavorare sul concetto di guarigione che si può anche chiamare risveglio. Si è parlato molto sul risveglio graduale o istantaneo; ma cosa vuol dire poi graduale?

La guarigione avviene per miracolo ed un miracolo è per definizione istantaneo. Non si è mai visto Lazzaro resuscitato in tanto tempo o l'acqua che per diventare vino diventa prima acqua sporca. Il tempo nel miracolo non esiste e la guarigione è un miracolo perciò per sua natura è istantanea.

Quando si dice che non c'è nulla da ottenere significa che ciò che si ottiene non viene costruito pezzo per pezzo, ma tutto in una volta. La guarigione può richiedere anni, decenni, per chi ci crede anche decine di reincarnazioni, ma in sostanza non è la guarigione lenta ma il lento riconoscere che non c'è nulla, appunto, da guarire. Si ha già tutto.

giovedì 18 aprile 2013

Fare ammenda

Uno dei passi dei 12 del recovery program è fare ammenda degli sbagli fatti. Questo penso che sia la parte più difficile: si tende infatti a trattenere le proprie ragioni, a giustificarsi, a dire: "Sì, vabbe', ho fatto questo, però...". In realtà la questione è che nel nostro giustificarci coviamo ancora vendetta.

Anche qui, però, la teoria si scontra con la pratica. Ci sono dei torti veri? Dove sta il confine fra voler fare veramente luce su un avvenimento passato e invece lasciare correre? Dove sta il confine fra perdonare e dimenticare?

Ma il problema non sta proprio qui. Sta nel concetto di risarcimento, a parer mio. La guarigione non può avvenire senza una chiusura dei conti che per tutti i partecipanti sia soddisfacente e l'unico modo per farlo è attingere ad una fonte potenzialmente infinita. Chiamiamolo amore, perdono, grazia divina, luce, ecc... ma in realtà il concetto è che noi possiamo solamente trasmettere la volontà di chiudere la partita, ma l'altra parte può anche rifiutarsi.

Ed allora? Può funzionare a senso unico? Se io sono sinceramente pentito di quello che ho fatto e chiedo scusa ma l'altra parte mi gira la schiena non è un fare un lavoro a metà? Fare ammenda significa allora andare oltre, anche se l'altra persona non vuole. E questo penso si scontri con il concetto di rivalsa, ed anche con il concetto stesso di giustizia.


mercoledì 17 aprile 2013

Invidia dei guariti

E' inevitabile, bisogna vedere questo problema: c'è una sorta di invidia, un qualcosa che manca fra il guaritore ed il paziente; un collegamento che bisogna che si instauri affinché ci sia empatia, e dunque guarigione.

E' solo una questione di tempo? Per esempio un alcolista che è appena entrato in recupero potrebbe vedere persone più in avanti nei loro passi. Prova invidia per loro? Vorrebbe già essere al loro posto? Quando una persona sta male l'ultima cosa che vuole vedere sono persone che stanno bene dopo aver patito lo stesso suo male. Questa è dunque una grande resistenza che si ha, ed è bene vederla subito, perché potrebbe boicottare il proprio percorso di guarigione.

Questo perché l'invidia dei guariti significa, anche, la paura che la guarigione sia possibile e dunque che l'atteggiamento da vittima, la depressione, siano soltanto delle scuse. Se una persona (alcolizzato, drogato, malato, depresso, brutto, mutilato, separato...) come me la vedo felice, allora vuol dire che io non ho il diritto di sentirmi arrabbiato con il mondo perché mi è capitato quello che mi è capitato, ma il fatto stesso che quella persona non solo sopravvive ma è felice allora mi fa capire che ciò che mi è capitato fa parte della vita e sentirmi vittima del mondo non mi fa certamente guarire.

E' questo un circolo veramente vizioso da indagare meglio.

martedì 16 aprile 2013

Zen e la no-mente (Mushin)



Guarire la mente è un rimuovere dalla mente ciò che la mente pensa
ancora presente. Il 99.99% probabilmente di tutte le "malattie
mentali" nevrotiche (ossia non fisiche --- anche se qui si apre un
enorme capitolo sul confine fra malattia mentale su basi biologiche e
su basi puramente nevrotiche, psicologiche ---) si basa su un gruppo
di ricordi più o meno inconsci che determinano nel presente scelte
irrazionali o sub ottime.

Ripulire la mente è dunque il primo passo per guarire, come nella
famosa storiella zen dove il monaco continuava a riempire la ciotola
di tè, facendolo uscire. La mente va svuotata della spazzatura prima
di tutto, e poi, forse, si può cominciare a riempirla di cose sensate.

O, meglio, non riempirla affatto: la mente sta bene così, vuota. Senza
pensare a tutto quello che ci può essere messo, togliere: i capolavori
del marmo si creano togliendo tutto quello che c'è da togliere
rivelando la forma perfetta che era già nel marmo. E così la nostra
mente, liberandola da tutta la materia inerte può diventare la nostra
vera forma. Guarita.

lunedì 15 aprile 2013

Mettere in discussione tutto


Se si vuole guarire è necessario cambiare paradigma: ciò che prima
sembrava giusto diventa "sbagliato" e ciò che era sbagliato o
impossibile diventa ragionevole, persino divertente.

Byron Kate fa un lavoro che si potrebbe dire manipolatorio, perché fa
credere alle persone di desiderare ciò di cui hanno paura: per esempio
fa desiderare di andare all'ospizio una donna malata di cancro al
seno. Prima ne era terrorizzata, poi no.

Questa manipolazione fa pensare ad un qualcosa di "brutto", come ad un
lavaggio del cervello. È guarire questo? C'è qualcosa che resiste a
questa definizione: d'altra parte ci sembra di non essere così
manipolabili, che debba avvenire qualcosa dentro di noi, e non da
fuori, che ci faccia guarire. Semplicemente costringere un bambino a
mangiare gli spinaci non lo farà guarire dalla sua fobia delle
verdure, lo può fare per paura, perché altrimenti gli impediamo di
vedere la TV o giocare... ma questo non sembra essere "guarire".

Però può essere un inizio.

domenica 14 aprile 2013

Ho' Oponopono

Nel conflitto c'è il vincente e un perdente. Esistono modi antichi per gestire conflitti in cui non c'è un vincente; ma la condizione necessaria è perdere. Ossia la rinuncia al conflitto porta l'altra parte alla realizzazione che c'è una vicinanza e dunque una reale voglia di comprensione.

Questa è la teoria; ma poi? Forse il primo passo da compiere per capire l'importanza di un altro tipo di gestione è riuscire a separare l'altro dalla proiezione che ne abbiamo fatto. Se il nostro conflitto è con il coniuge, allora il primo passo è separare il coniuge reale dal coniuge proiettato, da ciò che ha fatto veramente e ciò che invece ha fatto ma noi non avremmo voluto che facesse, oppure che non ha fatto e noi avremmo voluto che facesse.

Ossia il conflitto nasce da quanto la sua immagine si è distanziata dalla nostra proiezione di partner ideale.

Ma siamo ancora ad un livello razionale. L'Ho'Oponopono (come altre tecniche) va oltre la razionalità e richiede Fede. La Fede che lasciando andare, rinunciando anche alla giustizia, inneschiamo un movimento collettivo che sanerà il conflitto; questo innesco però deve venire da una parte non razionale e non giudicante di noi, una parte che si mette veramente dal punto di vista empatico a capire l'altro.

Capire ciò che l'altro vuole dirci innescando il conflitto in primis. Perché l'assunto di base è che a nessuno piace il conflitto.


sabato 13 aprile 2013

Vittimismo

Il punto centrale è questo: essere contro lo stato attuale delle cose significa sentirsene vittima. Ma questo punto centrale si scontra con la percezione assoluta che certe cose accadono senza una particolare ragione (sembra!) a me.

Se io ho rubato e vado in galera ovviamente non posso sentirmi vittima di un'ingiustizia: ho sbagliato, pago il mio debito, uscirò un domani. Ma se io giro l'angolo e mi derubano (o mi violentano, o subisco una condanna ingiusta per un errore giudiziario, o, tornando indietro nel tempo, mi chiudono in un campo di concentramento per la mia razza, mi deportano per il mio colore della pelle, ecc...) questo fatto, oggettivamente, sembra esterno alla mia volontà.

Essere contro questo stato, ingiusto (?), è però ancora fare la vittima?

Ritorna il pensiero del confine. Ma siccome il confine è frattale una best practice ci impone di dire che qualunque situazione è giusta ed è la nostra percezione a pensarla sbagliata e dunque a metterci nei panni della vittima.

Questa conclusione è fin troppo dura; c'è un'altra via? Come è possibile conciliare il nostro essere d'accordo con il mondo con un innato senso della giustizia? La guarigione non è dunque trovare l'equilibrio in questo divario assoluto?

venerdì 12 aprile 2013

Accettazione e rinuncia

La rinuncia a "lottare"... in astratto è una sconfitta. Ma cosa vuol dire rinunciare?

Mi rubano l'auto, rinuncio a lottare? Non faccio neppure una denuncia? Subisco un torto sul lavoro, rinuncio? Chiamo i sindacati? Cerco un risarcimento? Dov'è il confine fra acccettare quel che è successo, volerci mettere una pietra sopra e colludere con il male, rinunciare a far vedere la propria versione dei fatti?

tu ne cede malis, sed contra audentior ito

Sì, certo, non cedere al male, vagli incontro più fortemente... ma poi la frase continua:

quam tua te fortuna sinet

di quanto ti conceda la tua fortuna

Non è solo non cedere, ma affrontare il caso avverso. Non è solo accettazione ma offrire il petto al dolore e andare avanti.

Ma questo è guarire? L'eroe guarisce continunando a lottare contro la fortuna? Ulisse pena dieci anni a tornare a casa. Enea sette. Come può l'eroe guarire? Se il guarire è accettare la sfortuna, il passato... non è andargli incontro un tentare di cambiare il mondo?

Ma il mondo ha ragione... E' un problema aperto.

giovedì 11 aprile 2013

Chi soffre?

E' facile dire "sto soffrendo" ma non è altrettanto semplice definire il soggetto di questa sofferenza.



(preso da:  aforismi)

Dando per scontato che non si ha fame, sete o freddo... evidentemente la carne non soffre; si può dire che sia lo spirito, il cuore... già, è proprio questo il punto. Se questo blog vuole portare alla guarigione del cuore bisogna assolutamente definire quando questo cuore soffre.

Secondariamente bisogna vedere se questa sofferenza ci appartiene. "Ma certo che ci appartiene, siamo noi!". Si potrebbe dire. Ma pensiamo ad un'ustione. Siamo andati al mare senza crema solare e torniamo ustionati, la pelle brucia, è rossa, ecc... si può dire che la sofferenza ci appartiene o, invece, che sentiamo bruciore?

Noi non ci identifichiamo con la nostra pelle, diciamo semplicemente: "mi sono ustionato", oppure: "Oggi la sciatica mi fa un male cane", ma riusciamo a non identificarci con la pelle o con il nervo sciatico.

Perché invece nel cuore è diverso? C'è uno stato indesiderato e la mente sta male perché evidentemente c'è una situazione che non le piace. A chi non piace? Alla mente. Ma se provo a sollevare una cosa pesante e non ce la faccio non dico: "la mia mano non è forte abbastanza", ma "io non ce la faccio a sollevare questo mobile". Mi identifico con la mano e con la sua debolezza.

Cosa succede però nel caso della mano? Chiedo aiuto. Chiamo una persona ad aiutarmi, ingaggio una ditta di traslochi. E nel caso della mente. Se c'è un problema irrisolvibile, per me... cosa faccio? Chiedo aiuto. Ma a chi?

Chi è che sta soffrendo e chi potrebbe aiutarci?









mercoledì 10 aprile 2013

Giustizia e perdono

Sembra che non sia possibile perdonare senza giustizia; se una situazione la si percepisce ingiusta (causata da circostanze ma anche, e soprattutto, da altre persone), questa percezione impedisce di lasciare andare la sensazione di aver diritto ad un risarcimento.

Poco importa se non esiste più la pena di morte o i lavori forzati a vita: anche combattere anni di avvocati e udienze per un pezzetto di terra o un assegno di mantenimento è guerra. Poco importa anche chi ha ragione.

Sembra che guarigione e giustizia siano due cose separate: si può guarire anche stando in una situazione ingiusta, ci sono casi fin troppo evidenti. Andando nel religioso si può citare il "perdona Padre, perché non sanno quello che fanno", senza però essere religiosi si può pensare agli schiavi dell'America  nel diciannovesimo secolo, o anche di altre epoche.

Schiavo eppure composto in questo destino avverso. Non lamentarsi, non ribellarsi. Questo è adatttamento? Guarire... o piuttosto rassegnazione? Dove sta il confine tra "perdonare" (e quindi guarire) o "rassegnarsi" (e quindi sopportare)?

E' necessaria la giustizia (per guarire internamente, intendo)? E' per me una questione aperta, ancora.


lunedì 8 aprile 2013

Essere guariti o guarire?

Viene sempre l'idea, è inevitabile. E' un'idea che a parole si può esprimere così: "Sì, è bello guarire, ma non da soli". C'è una resistenza alla guarigione solitaria, perché viene da pensare che guarire significa anche (e forse solo!) trovare l'anima gemella, il partner ideale, vivere una vita piena di pace e armonia.

Questa idea di risarcimento è la più dura da mandare via, ma prima di tutto occorre esaminare perché sia da mandare via o, meglio, studiare alla luce di una migliore consapevolezza. Il guarire è estremamente personale; così come una malattia interna (non contagiosa) rimane un fatto personale, non trasmissibile (un infarto, un tumore, ecc...) così la malattia "spirituale" è un fatto interno, mio, un mio ostacolo che per certi versi mi sono posto di fronte.

L'idea di trovare il salvatore che mi tolga questo ostacolo e che mi faccia guarire è fallata perché il percorso di guarigione sta proprio nell'andare fino in fondo al dolore per scoprire che, in realtà, il dolore, come tutto il resto, è caduco e vuoto.

Dare importanza al proprio vissuto significa rimettere in piedi l'ego, gonfiarlo come il pilota automatico ne "L'aereo più pazzo del mondo" e lasciare che lui, di nuovo, guidi la nostra vita.


domenica 7 aprile 2013

Ancora prima

Ancora prima di cominciare è bene fare una lista di cose che non servono.


Se si pensa davvero che il guarire è ciò che vogliamo allora questo è lo stato che vogliamo ottenere. Questo stato è ciò che nel futuro, in qualche modo, vogliamo vivere. Il nostro io guarito che cosa ha rispetto a questo io che secondo noi non è guarito? Chi è che guarisce?

Ecco perché il guarire da un grave trauma è difficile: perché la parte più interessante, forse proprio la parte fondamentale per la guarigione, è proprio il capire cosa ha veramente rotto il trauma, o guastato o altro. Mentre per una ferita fisica si può fare una TAC, una radiografia, qualcosa... non è altrettanto semplice capire ciò che è stato rotto psicologicamente.

Ma è necessario? Ritorna il pensiero di prima: la lista delle cose che non servono. C'era un video bello di Mooji: "Truth or theraphy". Appunto, cosa si vuole, la verità o guarire?

Se si vuole la verità non serve a nulla una completa radiografia psicologica per sapere cosa il trauma ha fatto: serve solo dire che il trauma ha coinvolto qualcosa che non sono io. Ciò che veramente si è, è immune dai traumi.


sabato 6 aprile 2013

Il vero sé specchiato negli altri

Il passaggio tra la guarigione e l'allineamento del proprio sé al vero sé si comprende meglio se si rinuncia a considerare il mondo esterno come realmente esterno; questo rende anche più chiaro il concetto di perdono che si sente spesso dire.

Questo perdono non è tanto il perdono classico in cui si riconosce il torto ma lo si perdona, quanto la realizzazione (intesa come "to realize", il portare alla luce) del fatto che le persone che sembra ci abbiano fatto del male in realtà hanno specchiato un lato nostro che non era allineato al nostro vero sé e, per questo, casomai, dovremmo ringraziarli.

Questo accade proprio perché se si accetta che il nostro presente è interamente dovuto a nostre scelte, allora la componente aleatoria (e se vogliamo anche malvagia) istantaneamente scompare; rimane una sola verità, per quanto strana: noi soffriamo del male che abbiamo permesso alle altre persone di compiere su di noi.

Non c'è alcun male che riceviamo che non abbiamo preventivamente permesso.

venerdì 5 aprile 2013

Vero sé

La "guarigione" (ma forse è meglio togliere le virgolette, le ho messe solo per sottilineare il fatto che tutti noi siamo già sanati dal principio) si può ritenere completata quando si agisce in linea con il nostro vero sé. Riconoscere se stessi e guarire è un tutt'uno.

Ossia il lavoro che occorre fare per guarire è quello di riconoscere le proprie vere ragioni che sono state alla base della nostra situazione attuale. Queste vere ragioni sono le ragioni che fanno paura, perché è difficile ammettere di essere stati responsabili del proprio dolore. Ma il senso del guarire è proprio questo: riconoscere che il nostro non essere noi stessi ha causato scelte sbagliate che ora si ripercuotono sul nostro stato attuale.

E' ciò che abbiamo fatto che ora determina questo presente, ma non in un semplice Karma di causa-effetto, quanto, direi, una graduale (a volte brusca!) realizzazione di ciò che siamo. Fare qualcosa di sbagliato significa semplicemente fare qualcosa che non era esattamente ciò che desideravamo fare e, dunque, adesso ha un effetto negativo su di noi.

mercoledì 3 aprile 2013

Nebbia

Essere in un percorso di consapevolezza ha molte fermate, deviazioni, punti morti. Oggi è uno di questo. Sento nebbia. Si parla di notte nera dell'anima, forse è questa. Una situazione di stallo apparente in cui qualunque mossa, anche la più ispirata al buon senso, sembra fare del male a qualcuno. Come in una nebbia, si va avanti a tentoni, sperando di non tamponare una macchina ferma in colonna.

Ma in questa nebbia c'è una chiarezza, la Fede che la sorgente d'Amore è in me, una fiammella che non si spegne mai, la possibilità di rinascere, soffrire, vivere, e sperimentare, esserci, insomma. Questa fiammella può sopportare tutto, perché tutto non esiste, è solo un eterno gioco di mescolanze impermanenti, forme caduche ed evanescenti.

La nebbia stessa svanirà. C'è il sole, da qualche parte, lassù. Non si vede oggi. Ma c'è.

martedì 2 aprile 2013

Perdono e guarigione

Il perdono è l'essenza della guarigione: si può dire che il perdono è la guarigione stessa. Ossia che il perdono vero corrisponde al sentirsi liberati dal peso che pensavamo di avere; il peso è irreale, ma l'atto con il quale lo scarichiamo è importante. Il difficile nella guarigione è proprio la difficoltà della mente a percepire il perdono come assoluto, lo intendiamo sempre con qualche scappatoia, come per dire: "perdono quella persona ma... insomma, ci sarebbe questa cosa da sistemare, questo torto da riparare".

In questo modo si confonde il piano della realtà fisica con il piano dell'anima; il perdono dell'anima è per definizione assoluto (anzi, ancora meglio: l'anima non può peccare, perciò alla fin fine il perdono è non necessario, quanto semplicemente un dato di fatto) mentre il perdono nel piano di realtà porta comunque delle conseguenze. Io posso perdonare in senso assoluto il ladro che ha rubato in casa mia, ma non posso evitargli la conseguenza di questo atto, se viene processato e subisce una condanna.

Questo anche per le persone attorno a noi. Se sono un capo ufficio posso perdonare in senso assoluto, ma se c'è un regolamento lo devo far rispettare; ma qui si parla più di persone alla pari non rapporti di subordinazione. In questo caso la conseguenza è ciò che la persona sta cercando. Se mio figlio ha delle cattive compagnie e fa qualcosa di sbagliato lo perdono ma dovrà fare i conti egli stesso con il mondo esterno. Se la mia ragazza mi tradisce la perdono ma magari dovrà sopportare la rottura della relazione.

lunedì 1 aprile 2013

Egoismo per guarire

Guarire è un percorso solitario. E' la "via stretta", la via non facile, il percorso spirituale di una persona è costellato di ritorni, di ripensamenti ed è per larga parte solitario. Ma allora? Come si può dire di essere "guariti" se poi si è da soli? Non è una beffa? Viene da pensare che sia meglio tenersi le proprie nevrosi ma stare in mezzo agli altri, godere della compagnia e non essere considerato uno "strano".

Ma c'è quindi un egoismo nel guarire? Curioso, vero? Da una parte si dice che per guarire bisogna perdonare, lasciare andare il passato, dall'altra invece si osserva che per guarire è necessario stimarsi, amarsi, sapere che si può meritare di meglio dalla vita. E quindi sembra che la guarigione sia egoistica, se per "egoismo" si intende un amore per se stesso che non ricade verso gli altri.

Ma c'è un altro tipo di "egoismo", ed è l'egoismo di una persona che sa di lottare per una giusta causa, sa che ciò che sta facendo ha un valore. Anche se non mi piace il termine lotta, abbiamo degli esempi: Gandhi, S. Francesco sono state sicuramente persone egoiste, se con egoismo intendiamo l'essere intimamente convinti della giustizia oggettiva in quel che stanno facendo. Sembra quindi esserci un diverso egoismo, uno di basso livello ed uno di alto, delle anime grandi che sanno di essere nel giusto.

Guarire dunque è convincersi di essere nel giusto? Tutto qui? Ieri avevo detto che il mondo ha ragione, oggi dico che per guarire bisogna essere egoisti. Dove mettere il confine?