venerdì 31 maggio 2013

Ma se tutto è un gioco...

In una specie di scaletta dei dolori il dolore del rimpianto è quello forse più forte. Quando ci si rende conto di aver (per paura, malessere, inadempienza, inconsapevolezza, ecc...) rotto qualcosa di bello.

La distruzione porta con sé la certezza di aver forse qualcosa di veramente sbagliato dentro, come una specie di malattia: il re Mida che quando tocca diventa tutto oro, mentre qui è il contrario... una persona che quando tocca l'oro diventa piombo, sudiciume, svilimento.

Il rimpianto è però un'altra cosa pesante, anzi, la cosa più pesante di tutte. Il rimpianto è la sensazione appunto di aver il 100% di responsabilità in tutto quello che c'è attorno a noi.

E' il passo prima. Il 99esimo cancello prima della libertà, ma l'ultimo passo richiede un atto di Fede. E' il passo dell'autoperdono, del riso, del tutto è stato un gioco.

Alla fine, quando tutte le colpe sono state prese in carico, tutti i fascicoli riempiti di accuse, auto-accuse a dire il vero, quando tutto quanto è stato scritto, interpretato ecc... tutti questi fascicoli vanno bruciati. Non è stato reale, è stato tutto un sogno, si può ricominciare daccapo.

Tutta la colpa nostra non c'è, possiamo perdonarci. Questo è il passo gigante, perché o la gente tende a scaricare la responsabilità ad altri o tende a autocolpevolizzarsi troppo. Entrambe le cose sono sbagliate, anche se per diversi motivi (anche se poi in realtà non c'è nulla di sbagliato).

La guarigione non può avvenire se non si riesce a comprendere che, in fondo, è stato anche bello così, è stato un gioco bello... si va alla rete, ci si dà la mano.

giovedì 30 maggio 2013

Non resistere

Resistance is futile

Non è possibile resistere al dolore, o, meglio, la resistenza al dolore è altro dolore, dolore tra l'altro inutile, perché tanto è impossibile togliere il dolore, una volta che c'è. Resistance is futile.

Allora tanto vale usarlo a nostro vantaggio: il dolore è un po' come il wc net dell'anima, lo si può usare per togliere le vecchie incrostazioni, le convizioni sbagliate, i modi di fare non in linea con il nostro vero sé. Il dolore è un segnale: è il segnale che il mondo ha ragione (il mondo ha sempre ragione) e noi vogliamo combattere qualcosa del mondo.

La soluzione è lasciare quel qualcosa a cui siamo attaccati. Più il dolore è forte più la nostra convinzione è sbagliata, non in linea con quel che siamo. E quindi soffriamo indescrivibilmente. Ma in realtà è tutta una finzione, un segnale, ed anzi è una cosa positiva (se non resistiamo).

La guerra, igiene del mondo. Frase atroce se riferita al mondo, ma perfetta se riferita all'animo. Il dolore è in effetti l'igiene dell'anima. E' solo attraverso il dolore che si comprende ciò che siamo.

E' solo abbracciando il dolore, non resistendo, prendendolo tutto che può fare il suo corso, può agire all'interno. Quindi più c'è, meglio allora.

Vuol dire che la nostra anima è piena di ruggine, di incrostazioni. Ben venga, allora, un po' di igiene, più dolore, più igiene. L'importante è non resistere, ci sono sicuramente gli anestetici: droga, psicofarmaci, alcool, shopping (per le donne!, ma anche gli uomini ogni tanto...) ma perché anestetizzare qualcosa che serve?

Perché togliergli efficacia? Sentiamo dunque il dolore fino in fondo... e poi tireremo lo sciacquone, dopo, più puliti.


mercoledì 29 maggio 2013

Perdono che manca

Si parlava della ricerca interiore, ma è molto difficile, quasi impossibile umanamente, trovare la serenità in una situazione di palese ingiustizia. Come mettere d'accordo tutti i buoni propositi di ricerca interiore, di non vittimismo, di elevazione spirituale se si è in una situazione ingiusta?

Dicevamo della totale responsabilità, ma è anche vero che questa totale responsabilità sembra un prezzo estremamente grave, ma cosa è la gravità? Cosa è questo peso?

E' il perdono che manca.

Più la situazione è insostenibile, più è grave, più vuol dire che da qualche parte c'è appunto un grave, un peso che si vuole tenere sulle spalle. Un attaccamento, un rancore, una pretesa, una aspettativa.

Questo è il punto da togliere. Le catene sono sempre autoimposte, perché se la società, il coniuge, l'amico, l'amore della nostra vita, i figli, i genitori non ci perdonano noi possiamo sempre perdonare loro e noi stessi, malgrado tutto, tutto? tutto.

Più la situazione è grave più vuol dire che dobbiamo essere gentili con noi e con loro, acquisire del tutto la responsabilità e poi lasciarla.

Inspirare: inspiro la colpa.

Espirare: espiro, la lascio andare. Non è colpa mia. Non esiste colpa. C'è solo pace.

ORA c'è solo pace.

ORA questo peso non c'è.

ORA posso veramente perdonare me stesso ed andare avanti.

Quale è il prezzo? Rinunciare ad una casa? Dei figli? Una moglie? Un posto di lavoro? Una posizione sociale?

Quale è il prezzo?

Inspiro: questo prezzo è meno del respiro.

Espiro: perdono me stesso per aver fallito. Ma posso ancora vivere, ho ancora il respiro.

Il peso è andato.

martedì 28 maggio 2013

Togliere gli strati

Tolto tutto c'è il bello. Non importa quanta ruggine, quanto calcare, quante incrostazioni varie. Sotto c'è sempre l'anima lucente e, anzi, in realtà è sempre lucente, solo che non la vediamo.

La ruggine è solo nella percezione, non nell'anima. la religione mette in guardia contro i peccati, che sporcherebbero l'anima, in realtà il peccato è nel vedere l'altra persona sporca. Perché il vedere il peccato è ciò che poi fa soffrire. Vedere il peccato, infatti, significa che ci sentiamo in colpa per aver giudicato l'altro. Questo senso di colpa è ciò che mi fa sentire ancora più separato dal mondo e dalla grazia.

Ma qual è la soluzione? Solo una, togliere gli strati di errata percezione, prima di tutto in me e poi, be', in un certo senso nello stesso momento (con un po' di ritardo), nel mondo. Credo che alla fine la soluzione sia quella di rendersi conto di tutto quello di cui si può fare a meno. Si può fare a meno di tutto, anche della felicità.

Ed è in quello stesso istante che si arriva ad una felicità diversa, non più impermanente, ma che fiorisce in una parte di noi più alta, più serena, forse più nostra. Rinunciando alla felicità possessiva in realtà non è che si rinuncia a tutto, ma si nota come se ne può fare a meno. Si può fare a meno di tutto, anche dell'amore, non si è più alla disperata ricerca dell'anima gemella, della perfetta relazione, dell'amore dei figli o dell'approvazione del capo.

Siccome posso fare a meno, godo di tutto quello che ho, perché potrei viveve con niente, ed ho tutto... tutto quello che mi serve per vivere e godo di ogni piccola cosa che è oltre il semplice esserci, perché tutto è un dono.

lunedì 27 maggio 2013

Prima il dovere?

La Domanda principale (con la D maiuscola!) è sapere se il momento è quello giusto per interessarsi di queste cose. Si vedono sempre due tipi di persone cosiddette spirituali, ed entrambe hanno uno stigma negativo. Il primo è il cosiddetto "santone" nel senso eremita, povero, magari senza fissa dimora, l'homeless, l'emarginato dalla società, che vive di espedienti.
L'altro, al contrario, è il santone affarista, quello che viaggia in Ferrari, che tiene conferenze su come amare tutti e poi si fa pagare fior di quattrini per un'ora di consulenza su come aprire i tuoi chackra. Insomma, il ciarlatano.

Ma dove stiamo noi? La paura è che la via spirituale, siccome non può portare (se non per pochi fortunati (?)) il successo, allora è una via di rinuncia, di estraniamento dal mondo, di povertà, se non proprio di miseria.

Allora c'è il senso del dovere, del fare qualcosa per se stessi di concreto, prima il dovere, appunto, prima la famiglia, il lavoro, i figli, forse a queste cose ci si penserà in pensione, se si avrà tempo.

In realtà la questione è quella di risolvere sicuramente i problemi concreti. Vivere, avere un tetto, avere una discreta sicurezza economica che vuol dire essenzialmente avere un valore netto positivo (niente debiti) e un costante flusso di cassa, od anche variabile ma nel lungo periodo positivo.

Risolto questo tutto il resto è abbastanza libero, nel senso che la persona è libera di seguire i suoi propri scopi; c'è da dire che il mondo sembra proprio andare contro questa idea di indipendenza. Ma è solo un'impressione, in realtà c'è sempre una scelta.

Prima il dovere, dunque? Sì, se questo rende tranquilli, ma il dovere può anche essere meno di quello che si pensa. E' una scelta.

domenica 26 maggio 2013

La tac dell'anima

Il mondo esterno è dunque quello che ci siamo costruiti, pezzo per pezzo, montagna per montagna. Il mondo esterno è lo specchio più fedele di ciò che abbiamo dentro, la tac dell'anima, se così possiamo chiamarla.

Tutto ciò che vedo, sento, tocco ora, è un riflesso di qualcosa che ho pensato, di qualcosa che ho scelto (per la maggior parte inconsciamente) nel passato. Io sono veramente l'estremo Dio del mio destino. Questo però non è il pensiero megalomane di chi crede di potere tutto, ma anzi l'atteggiamento responsabile di chi non può accusare altri che se stesso di tutto quello che avviene attorno a lui.

E' il famoso Karma? Sì e no, il karma è una dottrina molto complessa che prevede anche retribuzioni da altre vite, con altre forme, fa intervenire anche centri di energia (i famosi chackra) ecc... il "karma" alla forma più semplice si può semplicemente ridurre al dire che non importano premi e punizioni, non si sta parlando di peccato, si sta parlando di realtà, e la realtà è tutta qui, in termini "ingegneristici" si può dire che l'universo non ha memoria, non c'è un libro mastro dei conti da pagare in sospeso.

La "memoria" dell'universo è l'universo stesso. Quello che vediamo è esattamente in pareggio, istante per istante, la nostra tac dell'anima, lo specchio perfetto. Se la nostra anima è in pace vedremo un universo pacifico, se la nostra anima è in lotta vedremo un universo che ci attacca. La risposta ad un riflesso è semplicemente quella di riconoscere che l'universo è passivo, solo uno specchio.

Il problema (se così possiamo dirlo) è che questo specchio ha una certa inerzia. Cambiare il nostro modo di pensare e di agire non dà un effetto immediato nel mondo esterno. In un certo senso questa è la memoria del mondo, la sua fisicità, dove comunque le velocità sono finite (sembrano) e le masse sono inerziali. In sostanza è un atto di fede, come sempre. Credere che tutto ciò che vediamo sia creato da noi e che solo noi possiamo cambiarlo è l'estremo atto di fede, perché... perché non ci conosciamo interamente. Ed è qui il senso del dire: "Sia fatta la Tua volontà". Perché semplicemente ci rendiamo conto che fare la nostra ha combinato questo pasticcio nel quale viviamo.

sabato 25 maggio 2013

Volontà ed ostacoli

La volontà è quella che muove le montagne, si dice; in realtà le montagne non si muovono perché c'è la volontà, ma semplicemente perché non ci sono montagne. Gli ostacoli ci sono, certo, ma sono anche lì come presenza neutra, non ostacolante.

La vita è una corsa ad ostacoli in cui gli ostacoli sono per la maggior parte (forse tutti) messi da noi stessi; la guarigione è più che altro il vedere come siamo stati sciocchi a credere che il nostro viaggio fosse così complicato, il vedere quanti ostacoli ci siamo messi nel cammino, per cosa, poi?

Non sapere questo e poi andare avanti è possibile, certo, ognuno, come detto, ha la piena responsabilità di quel che vive... se uno vuole vivere la vita con un ostacolo dietro un altro, con un senso di esclusione dal mondo, di guerra, di contrapposizione è libero di farlo, non c'è nessuno che glielo impedisce.

Però poi ne prende le conseguenze, forse è un suo cammino, forse troverà un ostacolo più grande avanti a sé che lo farà rinsavire o semplicemente andrà avanti fino ad un crepuscolo del Dio che ha voluto impersonare.

Da resistere a permettere. Questo è il cambio di percezione necessario affinché la volontà sia libera di esprimersi. Permettere tutto quello che avviene. Bring them in! insomma. Perché comunque ci sarà sicuramente un po' di inerzia. Se uno ha vissuto per 30 anni da addormentato per un po' di tempo il mondo gli presenterà il conto, ma, pian piano, gli effetti dovrebbero diradarsi nel tempo.

venerdì 24 maggio 2013

Respons-abilità

Essere responsabili di quello che abbiamo di fronte significa poter rispondere di quello che c'è non con la giustificazione della vittima ma con il coraggio (?) di dire: me la sono cercata.

Qualunque cosa, qualunque situazione, anche la più assurda, anche la più strana, dipendente da circostanze casuali, anche la più lontana da quello che pensiamo essere dipendente da noi la interiorizziamo, anche solo come esercizio mentale e diciamo: "OK, fino a qui, fino ad ora, ho scherzato un po', ho pasticciato, ho fatto le cose senza pensare e mi ritrovo in questo caos. Raccolgo i cocci e vedo di andare avanti".

Questa è dunque la vera responsabilità al 100%; accettare il momento presente come somma di tutte le nostre azioni dalla prima all'ultima. In un certo senso la prima, quella di essere venuti al mondo, rimane come esterna a noi, questo sembra logico, ma da un altro punto di vista si può anche dire che l'esserci ora ha niente a che vedere con quell'atto di 20-30-40 o più anni fa.

Sono scorrelati. Adesso è adesso, adesso ci siamo. Potremmo anche essere stati risvegliati da un sonno ibernato, come passeggeri di un'astronave da cinque minuti, dopo un sonno di millenni, eppure la sensazione di esserci sarebbe esattamente la stessa.

Il fatto di essere al mondo non è una scusa, insomma, per fare la vittima del mondo che non vogliamo. O, meglio, del mondo a cui chiediamo, come se già il fatto di esserci non fosse già il dono. Il più grande, anche perché è l'unico. Ed è di questo dono che noi siamo responsabili. Malgrado tutte le circostanze, anche perché, ma qui è appunto il cammino, le circostanze sono ciò che noi abbiamo manifestato.



giovedì 23 maggio 2013

Sono qui

Il pensiero di essere qui in questo momento in questo luogo è il primo passo per riconoscere che la vita ci sta aiutando. Prima ancora del cogito, ergo sum, c'è la sensazione di esserci che è precedente al pensiero.

Gli inglesi la chiamano "awareness", in italiano si può tradurre con autocoscienza, senso di presenza. Insomma, il senso di essere qualcosa, che ci sia qualcosa anche attorno a noi. E questo sentimento è antecedente a tutto, al dolore, alla gioia, al senso di solitudine o alla paura della morte. E' inattaccabile ed è sempre qui, in ogni respiro.

E' quello che i meditatori cercano di dividere dall'attività della mente durante la meditazione, ma, anche senza meditare, sedersi per mezz'ora nella posizione del loto contando i respiri, anche in un attimo senza tempo, si può sentire questo senso di esserci, che, comunque vadano le cose, questo senso non ci può essere tolto (se non dalla morte... ma poi... sarà veramente così? E comunque se nessuno ci uccide volontariamente questa eventualità è abbastanza remota).

Questo senso di esserci è la guarigione, perché questo senso non può essere malato. Se arrivo a quel punto, a sapere di essere anche senza la mia storia, quel che sono, come sono arrivato a questo punto, quali sono i miei problemi, i problemi della mia dolce metà, della famiglia, dell'intero genere umano... se arrivo a questo centro senza luogo dell'esserci... ecco che non esiste più malattia, perché l'essere è. Punto e basta.

Paul Hedderman lo chiama l'optionless state. Ed è veramente uno stato senza scelta, senza speranza. Perché nessuno mi ha chiesto se volevo esserci. Ci sono. Sono qui, non posso scegliere, se non in modo radicale suicidandomi io continuo ad esserci, vivere respiro dopo respiro. Sono qui.

mercoledì 22 maggio 2013

Nel fallimento luce

Il viaggio verso il fallimento coincide anche con il viaggio verso la finitezza del tutto e la compassione. Forse gli obiettivi che ci si erano proposti tanto tempo fa non sono stati raggiunti, forse la vita ha portato cose che non pensavamo essere.

Anzi, sicuramente, perché altrimenti non scriveremmo (e voi non leggereste) un blog sul guarire, altrimenti sareste già guariti. Ma il punto è che non importa. La vita è stata comunque ricca, c'è stato un fallimento o una serie di fallimenti, ma questo rimane come una traccia, un record di qualcosa che qualcuno comunque doveva fare o, forse, che chiunque al mio posto avrebbe fatto. Questo è appunto il perdono assoluto del fallimento, questo rendersi conto che questo è ciò che è, e nulla poteva in qualche modo cambiare, perché, per arrivare a questo presente, tutte le scelte che sono state fatte sono state fatte bene.

Altrimenti il momento presente non sarebbe questo, sarebbe un altro.

Ma va tutto bene, perché il momento presente è perfetto, e noi partecipiamo di questa perfezione (che altro potrebbe essere il momento presente se non perfetto? Altrimenti non esisterebbe!).

Amare se stessi, perdonarsi, essere gentili con la storia che abbiamo avuto finora significa quindi capire che non solo ce la siamo cercata (e questo potrebbe dare depressione...) ma che ce la siamo cercata perché non potevamo fare altro, date le circostante e la storia precedente.

Ma ora è diverso. Ora possiamo cambiare.

martedì 21 maggio 2013

Non c'era scelta

Non c'era scelta, non c'è mai stata scelta; il sentire fino in fondo che si ha fallito è un sentimento che può far male, ma in realtà quella strada porta una perla in fondo, come tutte le sofferenze grandi: non c'era scelta.

Non esiste libero arbitrio se non in una cosa sola: riconoscere che quello che si è fatto si è fatto da addormentati e quindi, più si è addormentati più le nostre scelte sono fatte da sonnanbuli.

Un giudice condannerebbe un assassino che ha ucciso sotto anestesia? Incosciente? Forse sì, ma sarebbe una pena ben diversa. Un sonnanbulo è incapace di intendere e così le nostre scelte sono state fatte in quello stato. Il fallimento totale c'è stato ma non c'era alternativa. O, meglio, l'alternativa c'era (c'è sempre) ma non l'abbiamo vista.

In questo il libero arbitrio è crudele, perché in ciascun istante c'è una scelta ottimale, solo che, per certe nostre conformazioni mentali, non la vediamo. Non è che non la scegliamo, proprio non la vediamo. In questo non esiste il libero arbitrio, perché in un dato istante non tutte le scelte sono portate alla luce della consapevolezza, ma, invece, sono fatte da addormentati, da reattivi, come degli animali che appunto reagiscono a stimoli.

Questa non è una giustificazione, perché in qualche modo ero io che ho fatto quelle cose, prendersi la piena responsabilità del fallimento significa che per come ero, per come vedevo (anzi, non vedevo) lo stato delle cose, non avevo scelta, non c'era libero arbitrio e, dunque, vedo come il percorso che mi ha portato a questo presente sia in realtà una specie di allucinazione.

Ma questo si può (anzi, si deve) applicare anche alle altre persone attorno, che hanno, anche loro, agito in questo stato addormentato.

lunedì 20 maggio 2013

Fallimento totale

Per poter perdonare compiutamente è necessario rendersi conto del danno irreparabile fatto di aver fallito in tutto e per tutto, prendendosi l'intera responsabilità di ciò che c'è attorno a noi.

Sembra proprio il contrario della guarigione, prendersi tutta la colpa, sembra proprio una cosa deprimente. In realtà la depressione nasce proprio per il contrario, quando esiste una possibilità di dare la colpa all'altro. Fino a che, dunque, non ci si prende il 100% della responsabilità, fino a che esiste ancora dentro di noi del risentimento verso un'altra persona ecco che non è possibile perdonare né a se stessi, né all'altro.

Il concorso di colpa, nella vita, non esiste. C'è solo la possibilità di andare attraverso un viaggio all'inizio doloroso ma che poi permette la guarigione. Il viaggio consiste appunto nel sentire compiutamente in sé la percezione di aver fallito, di aver ferito l'altro, di aver, come si dice in gergo, mandato tutto a puttane.

Quando si arriva a questo punto allora però avviene il miracolo. Perché prendersi tutta la colpa e nello stesso tempo accettare il momento presente per come è significa perdonarsi, perché quello che abbiamo fatto, per quanto orrendo o stupido, era quello che potevamo fare.

D'altra parte, prendendoci tutta la responsabilità, magicamente (ma non c'entra nulla la magia), vediamo compiutamente anche la responsabilità altrui, le cose che l'altro ha fatto e che ci hanno deviato. Le cose che hanno permesso l'errore. Ma anche questo non è un dare la colpa, perché la responsabilità è sempre nostra, solo che in questa chiarezza vediamo anche le responsabilità altrui.


domenica 19 maggio 2013

Accettare se stessi

Accettare se stessi ed il momento presente è la stessa cosa. Nel momento presente esiste tutto ciò che abbiamo scelto dal momento della nascita ad ora. Anzi, di più. Nel momento attuale esiste tutto il passato dell'universo fino ad ora ed esiste in un certo senso anche il futuro.

Qui sta la reale definizione del surrender, capire che ciò che è... è. Anche noi stessi, con tutti i nostri errori, inciampi, anche crimini; è più facile a dirsi che a farsi, ma è proprio per questo che esiste il tempo. Il tempo è lo stratagemma inventato proprio per dare una gradualità dove non esiste gradualità, perché l'essere è senza tempo, ma, essendo essere, può anche inventarsi il tempo per sperimentare cosa sia.

Accettare, poi, e perdonare, è ugualmente la stessa cosa. Se io accetto il momento presente vuol dire che accetto tutte le decisioni che sono state prese, sia da me che da altri. Le comprendo, comprendere interamente, farle mie, capire che, nei panni delle altre persone, avrei fatto esattamente le stesse cose che hanno fatto loro.

Questo è il perdono totale: comprendere la ragione che sta in tutto questo, la razionalità e perfezione del tutto perché ciascuno è figlio della sua storia, di quel dato momento.


sabato 18 maggio 2013

Il meglio possibile

Comprendere quel che si è fatto significa in qualche modo comprendere che al momento di ciò che pensiamo di aver fatto male quella opzione era il meglio possibile date le circostanze.

Questo livello di comprensione è quello che poi spiana la strada verso il perdono, sia mio che altrui. Se io, infatti, riesco a comprendere in modo chiaro che ciò che ho fatto o quello che mi è stato fatto, era ciò che io o l'altra persona pensavamo fosse il meglio possibile, allora è chiaro che ogni azione diventa perdonabile.

Perché in realtà ogni azione, almeno in teoria, è partita con una giusta causa.

Naturalmente tutto questo è un discorso astratto; non è facile applicarlo in gran parte delle situazioni che si presentano nella vita di tutti i giorni. Ma è possibile almeno applicarlo a se stessi, del resto, appunto, perdonare se stessi è in realtà il passo più difficile.

Solo noi, infatti, sappiamo i veri motivi per i quali abbiamo fatto qualcosa. Molte volte, però, questi veri motivi fanno vergogna, sono inconfessabili (o così sembrano). Questo è quello che ci frena dal perdonarci (e poi frena anche nel perdonare gli altri, perché quello che noi di sporco vediamo in noi stessi lo proiettiamo tal quale nell'altro).

La questione è quindi prima di tutto riconoscere che i nostri scheletri nell'armadio sono solamente dei fantasmi che non fanno più paura, che non hanno mai fatto paura, che ciò che è successo era appunto il meglio possibile in quella circostanza. Chiedere scusa, se c'è da chiedere scusa... e però andare avanti, con la consapevolezza di aver chiuso un capitolo.

venerdì 17 maggio 2013

sentire la ferita

Se quindi i due poteri sono uguali per guarire è necessario vedere chiaramente la ferita che abbiamo inferto all'altro, il vedere e poi chiedere scusa sono tutt'uno. A volte si dice che non si chiede scusa per orgoglio; in realtà forse non si chiede scusa perché non si percepisce la gravità dell'offesa.

Ciò non significa dire che sia tutta colpa nostra, si può anche chiedere scusa con la consapevolezza di essere stati, a nostra volta, feriti; ma ciò non toglie che, a parte casi forse rarissimi (che metto solo per completezza, ma non ci credo), il ferito ed il feritore siano entrambi nella stessa persona.

Questo fondamentale passo di umiltà è quello che ci può permettere di entrare in contatto con ciò che abbiamo trascurato. This is it! appunto, c'è stato un momento, magari anche tanto tempo, anni, decenni, in cui quel che c'era era di fronte agli occhi e l'abbiamo sottovalutato.

Abbiamo sprecato l'occasione di vedere ciò che c'era.

Ma questo non dovrebbe dare senso di colpa o di sconfitta, perché altrimenti si ricade nel vittimismo e ovviamente una vittima non guarisce mai. Semplicemente si scopre che la ferita che avevamo era talmente profonda che non volevamo vederla e, pur di non vederla, ne abbiamo fatto una simile all'altro.

Il simile attrae il simile; il manipolato tenderà a manipolare, ecc...

Sentire dunque la propria ferita significa sentire il dolore che abbiamo causato ad altri, alle persone che (pensavamo) di amare. E questo però è l'evento che potrebbe iniziare il vero processo di guarigione.

Ritenersi al 100% responsabili di quel che è successo e chiedere scusa.

giovedì 16 maggio 2013

Sono uguali

premessa:

Il passo verso la verità implica a volte delle conseguenze poco chiare ma che, sulla base delle premesse, vengono naturali.

Ovviamente il percorso di guarigione, come spesso è detto, è un percorso estremamente solitario, perciò ciascuno poi, nel suo cammino, trova le proprie verità, condividerle serve soltanto, a mio avviso, solo come placebo, perché la medicina adatta per me è solo acqua fresca per altri, ma magari, appunto per effetto placebo, può comunque dare un input per trovare la vera medicina.

Il potere di guarire ed il potere di ferire sono uguali. Per quanto assurdo possa sembrare chi più guarisce più ferisce (e questo si comprende) ma anche chi più ferisce più guarisce (e questo si accetta di meno).

Se si parte dal concetto che tutto è perfetto, che il mondo ha ragione, che ciascun pensiero di vittimismo non è altro che un'errata percezione di ciò che è successo, la conseguenza logica è che chi ci fa soffrire, chi ci ha fatto soffrire, non sono altro che guaritori mascherati.

Il compito nostro è quello di vedere nei supposti nostri nemici, traditori, torturatori (presenti e passati) come degli aiuti e non avercela con loro perché  essi stessi hanno sofferto facendoci del male.

Ritorna il "perdona loro, perché non sanno quel che fanno"?

Sì, ma ad un altro livello, ben più difficile. Il "non sanno quel che fanno" non vuol solo significare: "Be', poveretti, stanno uccidendo il Figlio di Dio, ma non lo sanno, perdonali", ossia dare sempre un giudizio, ma riconoscere che il loro atto è in realtà un atto d'amore, loro non sanno che uccidendo stanno in realtà permettendo il miracolo successivo della Resurrezione.

Questo naturalmente è molto difficile da vedere in una vita di tutti i giorni, difficile vedere come ad esempio un truffatore o un ladro possano aiutarci rapinandoci casa o spaccando il vetro dell'auto per rubare la borsa. Per non parlare di abusi o violenze sulla persona, mariti che picchiano, madri abusanti, stupri, ecc...

Eppure se si accetta il principio base che tutto è Amore non si può far altro che accettare come Amore anche queste cose e vedere in chi le fa solo una persona bisognosa d'aiuto e, per converso, anche la persona che le riceve come una persona bisognosa d'aiuto.

Questo spiega poi abbastanza bene il fatto che certe persone ricadano sempre in certi schemi; donne che, chissà come mai, si mettono sempre insieme a uomini violenti; uomini che, anche qui in modo strano, sono attirati sempre da donne che li ignorano o li denigrano.

Semplicemente sono persone che hanno bisogno di questo tipo di ferite per poter guarire e fino a che non comprendono la lezione, fino a che comprendono che non è necessario soffrire per guarire, purtroppo (dico purtroppo perché certamente non stanno bene) continueranno ad attirarsi in tali condizioni.

Ma questo non è un voler perdonare sempre, ed anzi, scusare tutto, anche comportamenti illeciti? No, ma la ragione è diversa.

mercoledì 15 maggio 2013

Il potere di ferire

Chi più ama più può far male. Chi ha più sofferto, più può far soffrire. Può anche "guarire", certo, nel senso che ho dato prima. Può incanalare l'energia di guarigione ed agire come catalizzatore, un tramite, una conduttura attraverso cui l'energia di guarigione arriva al malato (che è malato solo perché pensa di essere separato dalla fonte, in realtà è questa la sua malattia).

Però è anche vero che colui che può fare da tramite può anche ferire se non riconosce la potenza di questa conduttura. Nell'uomo ragno si dice la frase famosa: "Da un grande potere derivano grandi responsabilità". Ecco, anche il guaritore, proprio perché non è un guaritore (ma solo un tramite di un'energia già presente), proprio perché egli stesso è umano, soggetto a errori di giudizio, interpretazione, ha i suoi propri blocchi, ecc... può male usare questo potere, sia in senso "buono" (in buonafede). Probabilmente non è possibile usarlo in senso "cattivo", perché non sarebbe più un guaritore, ma egli stesso sarebbe staccato dalla fonte (o, meglio, vivrebbe nell'illusione di essere staccato dalla fonte).

Il problema spinoso è che per riconoscere di essere guariti bisogna riconoscere di aver fatto del male. Il guaritore, prima di essere tale, deve veramente capire come il suo comportamento, malgrado in buona fede, abbia causato dolore e distruzione attorno a sé.

La sua ferita profonda che ha il potere di metterlo empaticamente in contatto con altre persone, può anche però farlo così entrare in contatto che è più in contatto lui con il vero sé altrui di quello che l'ego altrui già non sia. E questo fa paura, prima di tutto e, secondariamente, permette al guaritore maldestro di ferire, perché non sa dosare l'energia che trasmette, entra empaticamente ma in modo profondo, diretto, indagatore e, egli stesso, non ha risolto i suoi problemi esistenziali e, soprattutto, non ha capito la sua missione.

martedì 14 maggio 2013

Il potere di guarire

Non è strano pensare che esista un potere di guarire, ma prima di tutto bisogna pensare al potere di guarire se stessi. Non esiste un guaritore, perché non esiste malattia; esiste appunto un potere di guarigione ma non è mio, perché il potere è semplicemente l'Amore ed io non sono amore, o, meglio, io inteso come "ego", ma "io" come vero io, sì.

E' il "famoso" peccato di presunzione di Mosé, che pensava di aver lui fatto il miracolo della fonte, mentre era solo un tramite di un potere all'esterno di lui, peccato di mancanza di fiducia nel potere superiore.

Ma ad un livello più basso abbiamo che ciascuno ha comunque il potere di guarire se stesso, questo lo possiamo chiamare potere di inerzia verso la Fonte. Ossia, il simile attrae il simile e se noi, appunto, il nostro vero io è Amore, naturalmente, se lasciato stare, tenderà verso l'Amore, come un palloncino gonfio d'elio.

Ciò che impedisce la guarigione sono tutte le cose che appesantiscono il nostro vero sé nascondendolo in una rete di pretese, rancori, vendette o desideri di rivalsa, giustizialismi, ecc...

Quindi c'è questa scelta. Il libero arbirtrio, se vogliamo, sta tutto in questa idea: vuoi farcela da solo oppure richiedi con fiducia l'intervento della Fonte? Vuoi la tua o la Sua volontà?

Anche se, per la verità, le strade che indica Dio sono (possono essere) incomprensibili per la maggior parte dei casi, tortuose, illogiche (per una mente finita), e quindi c'è come si diceva tempo fa l'atto di arrendersi ad una supposta illogicità (crudeltà, ingiustizia, ecc...) certi che ha un senso che noi non vediamo ancora.

E chiedere di essere salvati non è la stessa cosa che cercare di salvarsi da soli. Chiedere di essere salvati da Dio non è la stessa cosa che cercare sostituti.

lunedì 13 maggio 2013

La vita ti ha perdonato

C'è un sentimento di pace nell'essere perdonati, ma può anche dare un senso di disagio perché sembra che ci si meriti quello che si sta vivendo.

La mente sembra andare su due opposti estremi abbastanza facilmente: in un caso la mente cerca di giustificarsi, di dire: "ma non è stata tutta colpa mia!", nell'altro, però, tende a non pensare di poter essere salvata e quindi ricade in una certa depressione piena di sensi di colpa.

"Tutto è grazia", in realtà, e così come il curato di campagna lo comprende lo può comprendere chiunque, anche non in punto di morte. Se anche tu non ti perdoni, se anche le persone attorno a te sembrano non perdonarti, in realtà la vita ti ha già perdonato, perché, appunto, tutto è grazia.

Basta poco per accorgesene: al mattino gli uccelli cantano anche per te, il sole sorge anche per te, l'aria esiste anche per te. In Hugo il condannato a morte vede questo come una specie di beffa, poiché vede in questo il suo essere escluso dal mondo una condanna, lui è ancora fermo al "perché a me?".

Non dico che non sia importante, anzi, è fondamentale chiedersi "perché a me?", ma la richiesta va fatta con spirito critico, ossia non con l'atteggiamento vittimistico: "Perché a me? Gli altri sono cattivi, non mi hanno capito!", ma con l'atteggiamento aperto che nota come, per tante ragioni, molte fuori dal nostro controllo, ci siamo ficcati in certe situazioni.

La vita però ci ha perdonato, comunque. Questo però non può essere il primo passo, è troppo avanti. Prima vengono altre cose, più semplici.

domenica 12 maggio 2013

Perché a me?

Tutte queste "belle parole", però, si scontrano con una domanda che ciascuno può porre a suo modo: "perché a me?".

Ossia, se uno prende la sua vita come una cosa personale, allora è logico, naturale, porsi questa domanda, ed il porsi questa domanda è in qualche modo bloccante, perché, apparentemente, non c'è risposta. Anzi, non c'è risposta.

Ci sono così tante variabili esterne nella nostra vita, cose fuori dal nostro controllo che, quasi, siamo schiacciati dall'infinito dell'eterno caos (per chi non crede) o da una supposta intelligenza infinita che, però, permette cose tragiche.

Io posso anche risollevarmi da un evento drammatico: la perdita di un figlio, di una casa, della libertà, della mia immagine, ma la domanda del "perché a me?" rimane sempre al limite della coscienza, ossia perché proprio io devo sperimentare questo.

Perché proprio io devo guarire?

In queste cose non c'è una reale soluzione, forse solo una consolazione... e la consolazione di oggi è che non c'è un io che deve guarire. C'è un processo di guarigione che deve aver luogo.

Non c'è la malattia, c'è il malessere, non c'è la guarigione, c'è il "guarimento"(in inglese suona meglio: healing). Non c'è un io malato, c'è un "being", un essere qui e ora.

Non sta capitando a me, sta capitando e basta. La domanda "perché a me" è mal posta perché non c'è un me. O, meglio, quel "me" a cui la domanda vorrebbe dare una risposta prenderebbe forma dalla risposta a quella domanda, si vorrebbe aggrappare ad una risposta per dare un senso ad , mentre la soluzione è buttare via la domanda ed il me al quale essa sembra riferirsi.

O, se vogliamo, la risposta alla domanda "perché a me?" è: perché tu potessi fare questa domanda. Dove naturalmente quel "tu" della risposta è irreale come quel "me" nella domanda, ma quel "tu" che fa la domanda, grazie alla irrealtà della sua condizione (perché non è un sé a sé stante), si arrende al vero sé.

Oppure, in altro modo, si può dire:

"Perché a me?"

"Fino a quando ti chiedi questa domanda non sei guarito".

sabato 11 maggio 2013

Scaccomatto

Teorema di Ginsberg:
Non puoi vincere.
Non puoi pareggiare.
Non puoi nemmeno abbandonare.
http://simba.oasi.asti.it/Murphy/murphy01.htm



In realtà questo non è del tutto vero, o, meglio, la gente spende tutta una vita per provare a "vincere". Paradossalmente, però, si "vince" quando si scopre che non si può vincere.

Ma per scoprire questo bisogna avere un colpo talmente forte da perdere tutto, da mettere in scaccomatto l'ego. Il prezzo della verità è questo, dopotutto. Forse certe persone si mettono apposta in certe situazioni per poter dare un colpo così forte alla loro prigione mentale da poterne uscire.

E' come se una persona usasse la forza (debolezza!) di tutti gli altri "ego" attorno a lui per schiacciare il suo. Inconsciamente, certo, o forse ad un livello superiore di coscienza, accessibile in meditazione, per esempio, o in certi momenti di serenità.

Ritorna il concetto della piena responsabilità. Siamo noi la causa dei nostri dolori e ce li siamo procurati apposta per poter mettere in scaccomatto l'ego e liberarci. Molti però resistono, e da qui appunto la sofferenza. Se io (io inteso come ego) penso che posso ancora "farcela", continuerò a lottare fino alla fine. Tanatos, appunto, ed eros sono legati.

Solo quando l'ego è in scaccomatto, non c'è più nulla, ma proprio nulla da fare se non abbandonarsi ad una volontà più potente, allora ecco che può cominciare il vero percorso di guarigione, distruggendo l'ego. Wake up or bust, insomma, come dice Adhyashanti, oppure, come scrivevo prima: o suicidio, o pazzia o guarigione. Alla fine del percorso appunto, quando proprio non c'è più nulla da fare, tutte le mosse sono fatte, le sentenze scritte, c'è solo da andare avanti, prendere l'esperimento, accettare la realtà delle cose, ecco che c'è un nuovo tipo di serenità diversa, non più legata a ciò che c'è ma legata all'esistenza stessa. Il vincente ha preso tutto, certo, ma anche la nostra malattia.

Allora poi ti svegli.


venerdì 10 maggio 2013

Il prezzo è più basso

Il prezzo è più basso, comunque, di qualche secolo fa. La verità nei "tempi passati", aveva un prezzo di sangue. Bastava non essere esattamente conformati al pensiero dominante per essere imprigionato o torturato o quantomeno esiliato. Socrate, Gesù, Savonarola, Giordano Bruno, Giovanna d'Arco, Ipazia hanno tutti pagato a caro prezzo l'essere "diversi", non conformati.

D'altra parte è anche vero che era molto più semplice, all'epoca, vivere diversamente senza che nessuno ti disturbasse. Ciò che dava fastidio al "potere" (che poi non è potere, ma questo è un altro discorso) era la pubblicità... mentre se uno seguiva il "vivi nascosto" non aveva granché rogne.

Adesso, forse, il cambiamento è leggermente diverso. Una persona può predicare senza problemi ma il "vivi nascosto" è abbastanza valido ancora adesso, perché comunque la verità ha un prezzo.

Forse un prezzo non di sangue, ma un prezzo di emarginazione, di solitudine sì. La questione è però che non c'è scelta: una volta avviato un percorso di ricerca della verità si può concludere solo in tre modi: suicidio, pazzia o guarigione.

Molti, purtroppo, si fermano ai primi due stadi. Il "suicidio" può anche essere virtuale, ossia il negare ciò che si è intravisto perché fa troppa paura; il problema di questa rimozione è che tende a far diventare matti, svincolati dalla realtà, perché appunto si è compresa la natura ultima delle cose ma la si rifiuta, negando in realtà la verità si diventa molto più strambi di quel che si era prima.

Allora tanto vale togliere tutti i veli. Ma questo ha appunto un prezzo; il prezzo è che si lascia in un certo qual modo tutto quello che si dava per scontato, persino le cose più "normali", come l'amore romantico. Si diventa irrimediabilmente soli; in compagnia di tutto il mondo, ma soli.

giovedì 9 maggio 2013

Il prezzo della verità

Si ha paura della verità perché la vera verità ha un prezzo molto alto: è la rinuncia a tutto quello che si pensava fosse importante.

"Maestro, come posso seguirti?" "Va', vendi tutto e seguimi". Ecco, la verità è questa, anche senza vendere tutto in senso materiale significa semplicemente che tutto quello che si dava per scontato, persino la percezione di essere un io è fallace e cade se sottoposta ad un chiaro esame.

Esiste dunque una verità alternativa? Certo. Si chiamano religioni, credi politici, fedi, ecc... sono tutte verità un po' anestetizzate per togliere quel vuoto immenso di non essere nulla e nello stesso tempo essere presenti.

Perché appunto l'unica vera certezza è che esiste un'esperienza, ma non è chiaro chi sia lo sperimentatore. E' certo che qualcosa esiste, se anche tutto fosse un'illusione esiste un'illusione. E' già qualcosa.

Ma questo cosa ha che fare con la guarigione? Sembra che più forte sia la malattia più profonda deve essere l'escissione per togliere il tumore: persone con problemi non gravi possono "cavarsela" con una verità assai più semplice: una religione, magari un credo politico, una famiglia ecc...

Persone più gravi possono scegliere: o impazzire o lasciare andare.

In realtà non c'è neppure una scelta, perché mi rifiuto di credere che uno consciamente scelga di diventare folle per paura della verità, anche se ha un prezzo altissimo. Ossia, data la possibilità di scelta, se rimane un barlume di lucidità, si sceglie la pillola giusta, anche se costa.

Rimane il problema esistenziale del perché qualcuno ha bisogno di questo shock ed altri no. Scriverò ancora su questo, perché è importante.


mercoledì 8 maggio 2013

La sofferenza è sempre un optional

Nella vita soffrire è sempre un optional; alla fine tutte le correnti di pensiero spirituali si riducono a questo: "Fa' quel che vuoi, ma se proprio vuoi sapere la verità allora è questa: la sofferenza è opzionale, non fa parte del pacchetto turistico del viaggio su questa terra".

Ma... ma ho perso il lavoro, ho perso i soldi, mi ha lasciato la ragazza, ecc... le circostanze sono neutre. Direbbe il "guru" di turno. Una morte è un fatto neutro, la malattia anche, l'abbandono anche: sono le etichette che noi diamo a questi fatti che danno la sofferenza.

Nondimeno è anche vero che umanamente certe cose fanno soffrire, non c'è guru che tenga: allora a quel punto il guru di turno dice: "Sì, ok, puoi soffrire, non c'è nulla di male in questo, anzi, basta che non ti attacchi alla sofferenza, la puoi invece usare per risvegliarti".

La sofferenza c'è. Non è un optional, quello che è veramente un optional è il soffrire con rabbia, chiudersi nella sofferenza e prolungarla anche oltre un tempo ragionevole e in contesti distanti dalla sofferenza stessa.

C'è quindi una gran differenza fra soffrire e basta e soffrire sapendo di soffrire, perché nel primo caso la sofferenza è fine a se stessa, è come il complementare della masturbazione. Non a caso si chiamano a volte seghe mentali, ossia sofferenze fine a se stesse.

E la sega mentale è sempre un optional. In questo senso è vero: si può anche scegliere di non soffrire.

La sofferenza intera, quella dell'essere, esiste ed è ineliminabile, ed è per molti (se non per tutti) il motore che permette (potrebbe permettere) di arrivare alla verità.

Ma cosa distingue una sega mentale da una sofferenza esistenzialmente valida?

martedì 7 maggio 2013

Paura della verità

L'amore per la verità va insieme alla paura, e la malattia è vista come condizione migliore del conoscere la verità. Più vado avanti in questo cammino e più scopro che il grande ostacolo alla guarigione è il non voler vedere le cose come stanno.

Si può anche impazzire per questo, non c'è dubbio, nel senso di talmente negare la realtà delle cose da diventare schizzati, paranoici o altro. Ma alla base del tutto c'è questa paura di vedere il bianco bianco e il nero nero.

Come nelle macchie di Rorschach, la cosa importante è vedere ciò che c'è, non quello che sembra esserci, interpretando. La realtà insomma è questa che è di fronte, nuda. Chi più chi meno, però, non la vediamo tale: un tavolo diventa il "tavolo della nonna", quella sedia è "la sedia del gatto" (anche se il gatto oramai è morto da tanto tempo).

Questo è naturale, abbiamo ricordi sensazioni, ecc... ma se questi pensieri non condizionano troppo il presente allora siamo normali altrimenti appunto si parla di atteggiamenti fuori dalla realtà, sento le voci, vedo immagini, ecc...

A parte però malattie veramente su base biologica del cervello io credo che alla base di tutto ci sia questa forte resistenza a vedere le cose come stanno e, soprattutto, a prendersi la responsabilità di quello che succede. Nelle barzellette dei "matti" c'è sempre lo stereotipo della persona che dice: "nessuno mi capisce, tutti sono matti là fuori". Solo io so la verità.

Ma quella verità è una copertura. Nel caso della barzelletta è evidente. Nella realtà, fra le persone normali tutto questo è sfumato. Chi più chi meno, appunto, nega la realtà, o, meglio, la interpreta. Questa interpretazione è ciò che fa venire la malattia, che fa resistere alla guarigione.

Perché la guarigione è immediata, se uno vuole. Basta vedere il bianco bianco, il nero nero. Se c'è una farfalla dire: "è una farfalla". E vedere una maschera dove c'è una maschera.


lunedì 6 maggio 2013

Amore per la verità

C'è questo allora. L'amore per la verità è ancora precedente al processo di guarigione. Non si può voler guarire senza desiderare di vedere veramente ciò che c'è. O, meglio, è possibile desiderare di stare meglio, ma ciò sarà limitato a un bene superficiale.

La verità vi renderà liberi, è questo il regalo della verità. Ma viene con un prezzo: la verità incondizionata ci metterà di fronte a tutto quello che vogliamo tenere nascosto.

Adamo ed Eva hanno vergogna dopo che conoscono la verità, perché la verità sul loro bene e male è vergognosa, ognuno ha i suoi scheletri, come si suol dire, nell'armadio. Ma la buona notizia è che questi scheletri sono morti, appunto, non fanno paura se non la paura che diamo loro. La verità è affrontare questi scheletri e rendersi conto che si possono lasciare stare, i demoni stanno lì, carcasse innocue sugli scaffali della mente, non fanno più paura perché non si ha avuto vergogna di ammettere che esistevano.

L'amore per la verità li ha disattivati, mentre la vergogna di nasconderli dà loro potere. Questo sembra un mistero, almeno per me. Probabilmente ha a che fare con la psicologia base in cui ciò che si resiste persiste.

La verità è un modo per non resistere più a nascondere ciò che volevamo da tanto tempo nascondere: vuotare il sacco? Non è propriamente un percorso analitico, come sdraiarsi sul lettino e confessare tutte le nostre paure e desideri... no, è un vuotare il sacco prima di tutto a se stessi, rendersi conto che non si ha più motivo di aggrapparsi a certe convinzioni, ad una certa immagine di sé.






domenica 5 maggio 2013

La soluzione

Se la soluzione è già qui allora il problema non c'è mai stato. Trascendere il problema significa rendersi conto che il nostro stato d'animo senza il problema è migliore: la mente segue sempre il percorso di minima resistenza, se un problema viene mantenuto a lungo allora significa che la mente considera l'aggrapparsi al problema uno stato di minore fatica rispetto alla sua soluzione.

Questo è però difficile da comprendere per problemi di natura esterna: se sono disoccupato è difficile credere che voglio continuare ad esserlo perché la mia mente crede che la disoccupazione sia meglio dell'occupazione. Però... se c'è un vivo allora questo vivo è per definizione occupato (altrimenti sarebbe morto): se io sono disoccupato, prima di essere disoccupato sono esistente.

E' il fatto stesso di esistere che mi permette di essere disoccupato. E' qui il cardine per la soluzione, perché se veramente la mia condizione di disoccupazione minacciasse la mia esistenza allora farei qualcosa perché la mente troverebbe il modo di conservare se stessa.

Questo è un altro modo per dire che il problema esterno diventa un problema interno, di percezione. E' per questo motivo che quasi tutte le correnti spirituali dicono che il mondo esterno è un'illusione. Non nel senso che non esiste, ma nel senso che ciò che percepiamo è una versione del mondo che non ha attinenza con la realtà.

La soluzione del problema è riconoscere che ogni problema nasce dal fatto che non voglio accettare il mondo per come è: this is it.

sabato 4 maggio 2013

poveri cristi

Il nostro nemico è un povero cristo, così come noi. Ognuno ha la sua croce e ha la sua ridotta percezione del mondo. Guarire è quindi vedere il Cristo nel tuo nemico. Ogni attacco è dunque impossibile, perché non puoi attaccare un Dio.

Ma questo non è un giudicare? Se io giudico il mio nemico un povero cristo non è mettersi al di sopra di lui, dire: "Poveretto... non sa quel che fa". Gesù dice: "Perdona, padre, non sanno quello che fanno". Be', Lui può dirlo... ma un povero cristo qualunque può dire ad un altro che è un povero cristo?

Dove sta il confine fra compassione e giudizio? La compassione è positiva, riconosco che il mio nemico, colui che mi sta attaccando lo sta facendo per paura e quindi non vedo il suo attacco come un attacco, ma come un disperato tentativo di riconnessione.

ri-connessione. L'attacco è una richiesta d'aiuto.

Ma per vedere questo è necessario lavorare su se stessi, capire che ciò che stanno attaccando è l'immagine che si sono fatti di noi, non noi. Se ci consideriamo solo un corpo materiale, se ci identifichiamo con un corpo, allora l'attacco ha un senso; ma se ci identifichiamo con lo spirito allora siamo inattaccabili e colui che attacca è semplicemente un povero cristo.

Il Cristo, dunque, è l'uomo che sa di esserlo. Il povero cristo è semplicemente una persona che nega la sua vera natura e continua ad andare in giro per il mondo cercando di attaccare altri poveri cristi come lui. La guarigione avviene perché c'è un cambio di percezione, non perché si riesce a vincere.

Non è possibile vincere con un povero cristo, l'unica vittoria è compatirlo. Ma compassione nel vero senso della parola, come nella frase: "Ti perdono, perché so che non sai quel che stai facendo, perché sei un sonnambulo che agisce nel sogno".

venerdì 3 maggio 2013

Ama il tuo nemico

La frase è abusata e maleinterpretata nella maggior parte dei casi. E soprattutto viene spiegata male; si dice, infatti, che "amare il nemico è segno di forza" ma non si spiega in realtà bene cosa sia questa forza, e da dove proviene.

In realtà posso trovare due ragioni per amare il nemico. La prima perché semplicemente il passato non esiste e quindi qualunque cosa la mia mente ricordi di aver subito non c'è. La seconda perché, se anche fosse successo, la mia mente proietta un passato che non è reale ma deformato dal mio risentimento.

A questo punto però è anche vero che bisogna dire che il perdono inteso in questo senso non è un perdono cristiano. Io perdono perché non voglio più pensare a quella persona, la voglio cancellare, nel bene e nel male, questo libera me, ma libera anche lei e, magari, liberandosi, potrebbe anche comportarsi in un modo da ribaltare questo passato.

Questo forse è il concetto profondo dell'Ho'ponopono, quello di disattivare il campo di forza negativo che si forma fra due opposte fazioni; questo campo di forza è quello responsabile della percezione sbagliata e questo genera altro malessere, frustrazione, senso di rivalsa.

Naturalmente per fare questo bisogna lavorare su se stessi; ma è possibile che solo una delle due parti lavori?

Quando ti tirano delle pietre non hai il tempo di meditare o lavorare su te stesso. In tempo di grandine non ti metti a passeggiare facendo finta che ci sia il sole. Questi concetti sono utili in un momento di pausa nella guerra, ma nel momento cruciale? Se il tuo nemico attacca ci vuole una risposta immediata! E quale è questa risposta?

Fight or flight. Ma anche scappare lo fa ancora di più arrabbiare. Questo è importante da capire e su questo sembra che la teoria inciampi. Perché dà una visione a lungo termine ma non dà risposte nel breve.


giovedì 2 maggio 2013

Toccare il fondo

Spesso si dice che per guarire bisogna toccare il fondo. Cosa questo fondo sia non è dato sapere, perché sembra che ciascuna persona ha un diverso livello di sopportazione. Così come dal dentista, ci sono persone che hanno solo un leggero fastidio con il trapano, altre che vogliono essere anestetizzate.

Il dolore emotivo non si può anestetizzare, ed il fondo può essere visto in vari modi: il fondo può essere un fondo fisico, di dipendenza o di estrema prova, ma può essere un fondo invece di inazione, depressione e rabbia sepolta.

D'altra parte il fondo può anche essere visto in modo semi-oggettivo dalle persone che ci stanno attorno: non serve essere uno psichiatra per vedere che un nostro amico o una persona a noi accanto (partner, parente, ecc...) sta toccando il fondo. L'autoosservazione qui serve a poco perché la persona può non sapere di stare in una situazione pericolosa per se stessa.

L'amico può anche sbagliarsi e a volte si dice "stai toccando il fondo" a sproposito, quando invece è solo un periodo in cui si cerca di ritrovare se stessi. Questa semi-oggettività fa parte del discernimento di cui si parlava ieri.

Il malato può non accorgersi di stare toccando il fondo, ma può avere sufficiente contatto con la realtà da capire quando una persona accanto a lui gli sta parlando oggettivamente o meno. Il discernimento è dunque sempre il primo passo per la guarigione.

Ma non è anche l'ultimo? Una persona che sa discernere è guarita... perciò si sta cercando di dire che per guarire bisogna essere già guariti? Dov'è dunque il trucco?

mercoledì 1 maggio 2013

La luce

La luce è qui. L'illuminazione e quindi la guarigione sono solo aspetti di una speciale grazia. "chiedete e vi sarà dato".

Cosa vuol dire chiedere? Si parla spesso di legge di attrazione, il simile attrae il simile, ecc... Questo da un punto di vista può anche essere vero, ma se noi vogliamo la guarigione quale simile bisogna immaginare? Se io immagino il modello di una persona guarita che in realtà è malata io diventerò ancora più malato.

Idolatrare la pazzia genera altra pazzia. E adorare chi è più malato di noi non farà altro che aggravare la nostra malattia.

Perciò riconoscere la propria pazzia non basta, bisogna sviluppare il discernimento per vedere la pazzia altrui. Questo è chiamato discernimento. Attraverso il discernimento si può cominciare a capire che ciò che avevamo fatto prima era folle. Non bisogna sentirsi in colpa, succede. Secondariamente che la nostra follia era certamente dovuta alla copia di follie altrui, ma questo non ci solleva dal capire che eravamo folli noi in primis.

Dopo il discernimento si cerca il guarito. Che non è il guaritore. Molti guaritori, o supposti tali, sono più folli di chi cercano di far guarire. Il guaritore è colui che sa di essere salvo dalla follia ma non cerca di salvare i folli attorno a lui, li accetta.

Se un folle è sufficientemente sveglio, o è diventato talmente folle da aver toccato il fondo, forse, forse, riuscirà a capire che ha toccato il fondo per aver seguito la pazzia. E cercherà uno sano che gli indichi una strada migliore.