sabato 13 aprile 2013

Vittimismo

Il punto centrale è questo: essere contro lo stato attuale delle cose significa sentirsene vittima. Ma questo punto centrale si scontra con la percezione assoluta che certe cose accadono senza una particolare ragione (sembra!) a me.

Se io ho rubato e vado in galera ovviamente non posso sentirmi vittima di un'ingiustizia: ho sbagliato, pago il mio debito, uscirò un domani. Ma se io giro l'angolo e mi derubano (o mi violentano, o subisco una condanna ingiusta per un errore giudiziario, o, tornando indietro nel tempo, mi chiudono in un campo di concentramento per la mia razza, mi deportano per il mio colore della pelle, ecc...) questo fatto, oggettivamente, sembra esterno alla mia volontà.

Essere contro questo stato, ingiusto (?), è però ancora fare la vittima?

Ritorna il pensiero del confine. Ma siccome il confine è frattale una best practice ci impone di dire che qualunque situazione è giusta ed è la nostra percezione a pensarla sbagliata e dunque a metterci nei panni della vittima.

Questa conclusione è fin troppo dura; c'è un'altra via? Come è possibile conciliare il nostro essere d'accordo con il mondo con un innato senso della giustizia? La guarigione non è dunque trovare l'equilibrio in questo divario assoluto?

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